articolo di mercoledì 26 gennaio 2011 Buon compleanno Eugenio Corti di Luca Doninelli Lo
scrittore ha compiuto 90 anni. Ma l’establishment culturale ancora lo
ignora Le sue colpe? E' stato anticomunista, è cattolico e ha creato un
capolavoro del Novecento’900 In
questi giorni ha compiuto novant’anni uno dei personaggi più grandi
e misteriosi della letteratura italiana dell’ultimo mezzo
secolo: Eugenio Corti. Sono diverse, in Italia, e specialmente in
letteratura, le figure difficili da catturare secondo i parametri
storicoletterari vigenti - le figure, voglio dire, di cui si
riconosce il valore, questo sì, ma per aggiungere però, subito dopo,
che sono «di difficile collocazione», come se il problema fosse
quello di collocarli, di prender loro le misure: cosa che si fa,
solitamente, quando si deve fabbricare una bara. Ma
il caso di Eugenio Corti è comunque il più emblematico di tutti, perché
Eugenio Corti ha commesso l’errore più imperdonabile: quello di
avere scritto il capolavoro che tutti i letterati italiani aspettavano.
Chi scriverà il capolavoro?, si domandavano spesso i critici, fino a
qualche tempo fa, ma intanto ciascuno faceva dentro di sé tre o
quattro nomi dei papabili, perché è bello attendersi sorprese,
ma fino a un certo punto. La nostra cultura si presenta affetta da una
strana malattia: quella delle cose fatte sempre «fino a un certo punto».
Provocazione, genio, spregiudicatezza, abnormità: tutto va bene, ma
a patto di emanare un certo profumo, di stare dalla parte giusta, di
essere bellino. Peccato che spesso il genio sia brutto, cattivo e
anche puzzolente: o ripugnante. Impresentabile. Goffo. Non dico
sempre, ma a volte sì, altroché. Eugenio
Corti ha accumulato una bella filza di peccati mortali. Tanto per
cominciare è cattolico, poi è sempre stato anticomunista ( una
cosa, questa, che, ho notato, irrita spesso più gli excomunisti o gli
ex sedicenti comunisti che non i comunisti veri). In terzo luogo, ha
usato cattolicesimo e anticomunismo per scrivere un capolavoro
immortale,
Il cavallo rosso , apparso nel 1983, al quale la critica ha reagito
girandosi dall’altra parte, facendo finta di non aver sentito,
capito, visto. C’è
anche il fatto che Corti è un narratore puro, uno cioè che racconta i
fatti, presentando la realtà degli uomini e delle cose con rispetto,
attenzione e amore, senza mai spaventarsi di fronte alla loro
complessità, organizzando a questo scopo una macchina narrativa
potente e molto raffinata. Non è mai preoccupato di mostrare al mondo
quanto è intelligente, perché tutta la sua intelligenza si consuma
nello sforzo di far vivere personaggi e oggetti (perché in narrativa
anche i sassi devono essere pieni di vita). Le
sue pietre di paragone non sono Don DeLillo o Ian McEwan, ma Omero e
Tolstoj, e l’accusa che qualcuno gli muove (quando si degna di
parlare di lui) che la sua letteratura è vecchia, che oggi non si
scrive più così, gli fa lo stesso effetto che doveva fare su Tolstoj,
o su Omero. Vi
basti leggere, in proposito, l’incipit maestoso del Cavallo Rosso per
capire di che si tratta. Due uomini, un padre e un figlio, falciano un
campo d’erba: lo scrittore li segue pazientemente, con rispetto,
segue il cavallo legato che bruca i ramoscelli degli alberi, segue i
gesti dei due uomini mentre affilano le loro falci. Sono due persone
buone. Nubi si addensano all’orizzonte, lo scrittore ce le fa vedere
quasi senza parlarne: ma ci sono. Il grande scrittore ti fa vedere anche
le cose che non nomina, ma che sono lì, presenti, mute ma reali. Ma
nella scena di questa mietitura circola anche un’aria di cose ultime,
come se questi due uomini fossero un’immagine passeggera - ma
reale - del Padre e del Figlio che, un giorno, mieteranno anche ciò
che non hanno seminato. Cioè la storia. Ma,
per tornare a noi, può anche darsi che il peccato d’origine sia
di tipo editoriale, ossia il fatto che nessuno degli editori del giro
che conta pubblica Corti, bensì un editore piccolo e maledettamente
schierato come Ares, parrocchia Opus Dei, diretta da un altro ragazzo
terribile, Cesare Cavalleri, il genio della stroncatura. Tutta gente
poco presentabile. Per fortuna ce n’è qualcuno, in questo mondo di
belli biondi e palestrati. C’è,
insomma, di che riflettere sui complicati meccanismi di rimozione che
muovono la nostra cultura. In qualche modo - spero di non attirare le
maledizioni del Grande Vecchio esiste uno strano legame tra Corti e
il suo esatto contrario, Roberto Saviano. Uno vecchio, l’altro
giovane. Uno ha scritto un capolavoro ed è ignorato, l’altro non ha
scritto nessun capolavoro ed è pluripremiato nei campi più diversi:
dal cinema al teatro alla laurea honoris causa in Legge. Presto,
sembra, gli assegneranno anche il Fifa World Player o la Coppa Davis.
Eppure Eugenio Corti e Roberto Saviano appartengono ambedue a una
vicenda di rimozione curiosa e singolare. Questo affrettarsi a dare
a Saviano tutti i premi possibili, com’è simile al silenzio
imbarazzato che circonda Corti! Quanto malessere si respira in tutti
e due i casi! Ogni
cultura ha i suoi divieti, i suoi tabù, i suoi codici da trasgredire,
ma le rimozioni di quella italiana sono tali da farle rischiare
l’immobilità assoluta. Oggi molti sono convinti che non ci sia più
nulla da trasgredire, ma così dicendo mentono sapendo di mentire:
il nostro è un Paese totalmente immerso - dal punto di vista culturale -
in un terrore di cui non vuole ammettere l’esistenza. La paura si
legge in tutte le sue manifestazioni, dai festival ai premi, dai
film agli spettacoli che vanno per la maggiore. La paura del presente,
del futuro, il sospetto di non saper far fronte agli eventi che
verranno, di non avere una posizione forte di fronte a nulla... E
non si dica che è colpa delle tendenze del mercato. Oggi lo diciamo per
giustificare il fatto che non siamo più nemmeno capaci di attendere il
capolavoro, ma è una scusa, perché tutti sappiamo che il mercato è
grossolano: non è un buongustaio e mangia sempre quello che gli si dà
da mangiare. |