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parte 1^ - L'Oratorio di S. Antonio a Groppello

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Arte nell'Oratorio di S. Antonio di Groppello d'Adda
Tratto da: Acropoli - rivista d'arte - 1960-61 "L'Oratorio di Groppello d'Adda e il Fiamminghino"
Angela Ottino Della Chiesa ha scritto sulla rivista d'arte Acropoli 1960/61 "L'Oratorio di Groppello d'Adda e il Fiamminghino":

Al termine di una carrareccia recente, che dalla strada lungo il canale della Martesana porta all'argine dell'Adda, mi apparve improvviso l'oratorio di S. Antonio segnalatomi, pochi minuti prima, dal parroco di Groppello.
Ne ignoravo l'esistenza. Una successione di casette ai lati della carrareccia ne nasconde la vista sino a pochi metri di distanza.
Solo proprio ai limiti dell'argine sul fiume, la costruzione appare da tergo, vecchiotta, modesta, sostanzialmente intatta. Aggirandola, sul prato mezzo a coltivo che la fronteggia, la sua architettura di severo Seicento lombardo si anima di colpo.
Non è un capolavoro, non è opera di impegno, e la modestia pratica degli originali intendimenti è palesata dal cubo della sagrestia, coeva, attaccata al fianco destro:
Panoramica sull'Oratorio di S. Antonio a Groppello d'Adda (fotografia tratta dal Virtual Tour di Gianluca Colombi)

«giunta» inarmonica, anche se non basta a squilibrare il corpo dell'oratorio i cui rapporti rivelano, nella loro euritmia, la mano di un accorto, sensibile e soprattutto sicuro uomo di mestiere, un architetto che non aveva nulla da imparare sul gioco delle proporzioni, E se un dubbio rimanesse, si osservi, nella sua misura, la liscia cornice sottotetto e la facciata, la quale, pausata da quattro lesene, di cui due ad angolo, a sostenere l'armonia del timpano profondo, è tutta centrata sul magnifico portale e sulla quadrata finestra sovrastante. A filo delle lesene, tutta la parete rientra dalla, base al tetto, di quel minimo necessario a muovere luci ed ombre e a incorniciare la porta ancora cinquecentesca, di proporzioni impeccabili, quasi ispirata, diresti, nella modestia della «molera» casalinga; a quella bramantesca del sepolcro Trivulzio in San Nazzaro e Celso. Cinquecentesca nei semplici sorvegliatissimi moduli è pure la cornice della finestra sovrastante. A sommo del tetto, ma arretrato per non turbare i ritmi del timpano, un pinnacolo, destinato a una statua del santo che probabilmente non ha mai ricevuto.
Il breve luminoso interno (m. 7,90 X 4,60) rivela nei ritmi architettonici, in parte effettivi e in parte dipinti, una cura non inferiore. Le pareti lunghe, arretrate leggermente nella parte mediana, poggiate ad un'ininterrotta base dì pietra e chiuse in alto da un doppio cornicione, in parte dipinto e in parte a stucco, ma sempre ricco di accortissimi tagli e profili, sono scandite dalle sottili sporgenze di quattro lesene, due angolari e due a divisione degli specchi dipinti. Due archi a pieno centro, che si partono dalle lesene mediane oltre il cornicione, dividono e muovono anche il soffitto, che risponde così al ritmo delle pareti con due volte a botte sulla facciata e sopra l'altare e con una più ampia vela nel centro.
Come l'interno di un ricco cofano del tempo, il mosso vano ride tutto nei chiari colori degli affreschi che lo riempiono e illuminano con sette storie di S. Antonio da Padova, il santo e il taumaturgo per eccellenza.
Facciata dell'Oratorio di S. Antonio di Groppello (fotografia tratta dal Virtual tour di Gianluca Colombi) - i dipinti del Fiamminghino
Il cielo è occupato nella zona centrale dalla gloria del Santo, che le due volte terminali a botte completano con voli, tra nubi, di angeli musici1 .
Gli affreschi, a un metro di altezza, poggiano su una base in «molera» a filo di pavimento alta cm. 25 e su un falso zoccolo alto cm. 75, dipinto a targhe di marmi intarsiati. Pure dipinta a fresco è la finta architettura che isola con fasce, lesene, telamoni e camici, i singoli riquadri e la volta, e ritma armonicamente tutto il vano in un gioco prospettico di luci e ombre tanto perfetto da illudere a pochi centimetri di distanza. Lo stato di conservazione è buono, solo i primi due affreschi a sinistra sono qua e là abrasi con qualche caduta di colore, ma in modo più appariscente che grave. L'intonaco è asciutto e cantante, i colori così vivi e ridenti che, al nostro occhio, avvezzo a vederli per solito sfumati dal tempo, appaiono sin crudi.
Nell'ultimo affresco, sul gradino della cattedra dell’inquisitore, l'iscrizione:
«Io. MAURUS. D.LA.ROBOR. MEDIOLANEN(SIS)
DICTUS FIAMENGINUS PINSIT ANNO
MDCXXXVIII»
Storie di S. Antonio - Miracolo di bilocazione a Lisbona (particolare con iscrizione) - fotografia di R. Siesa
La costruzione dell'oratorio deve precedere di ben poco la data degli affreschi.
Si tratta dunque del Fiamminghino, il milanese Giovan Mauro della Rovere, uno dei più noti, ricercati e infaticabili rincalzi di quella celebre triade (Morazzone, Cerano, Procaccini) che rinnovò vitalmente la pittura milanese decaduta di spiriti e forme a metà del secolo XVI e le diede, tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, un definito carattere e sapore. Ricercatissimo anche dai committenti più qualificati, presente ancor oggi a Milano e in tutta l’alta Lombardia, nonostante le distruzioni, con numerosi olii tempere e affreschi, autore infaticabile di interi cicli (e questo, inedito, è uno dei tanti), la chiara fama, le molte citazioni degli scritti anche antichi non ci hanno dato di luì, né dei fratelli, notizie biografiche valide2. L'Orlandi fa del nostro un seguace di Camillo e poi di Giulio Cesare Procaccini, smentito a metà dalla moderna critica che guarda verso gli Zuccari e i pittori dell'Italia centrale. Il Lanzi con notevole acume dice: «Fu dei primi che aderissero ai Procaccini; e potrà per la età situarsi nella loro epoca, se la sua maniera di dipingere, soverchiamente veloce, non meritasse inferior luogo. Abbondava di quel fuoco che, usato con giudizio, dà anima alle pitture; abusato ne scompone la simmetria». E poco oltre: «... scorretto ma spiritoso. Ne restano non solo lavori a fresco, ma inoltre quadri a olio di istoria, di battaglie, di prospettive, di paesi, quasi in ogni angolo della città».
La critica moderna, che non ha ancora specificatamente studiato l'artista e non a sufficienza il periodo nel suo complesso, lo definisce pittore di pratica, di onesto mestiere, di facilità inventiva buona per le più diverse occasioni iconografiche, dal comporre già scontato, dalle figure intercambiabili, solo ispirato a tratti, in qualche spiritoso guizzo di maniera, dai maggiori maestri locali e soprattutto, come più o meno molti dei suoi tempi, da Gaudenzio Ferrari. La difficoltà di precisare uno svolgimento stilistico e di discriminare, nelle opere comuni, le mani dei due fratelli Giovan Battista e Giovan Mauro, non è stata ancora affrontata. Solo l’Arslan, nei suoi cenni precisi, definisce Giovan Mauro manierista lombardo non immeritevole, e cerca di inquadrarlo, di analizzarne la pittura, di distinguerlo dal fratello, e non manca di notare la volubilità di pose, il gonfiarsi di vesti, la ridondante vena gaudenziana che muovono a tratti la sua pittura 3.
Non c'è di che insuperbirsi e il lettore potrà chiedersi perché ci stiamo soffermando su un'opera, sia pure sconosciuta, di tanto piccolo e mediocre maestro. Valutazioni a parte, egli è per noi non soltanto un artista che merita più meditato giudizio, ma è anche come una stretta finestra a capo di un corridoio ancor buio che cominciamo a percorrere.
Consideriamolo per ora semplicemente un artigiano. Un semplice artigiano della pittura, padrone consumato, e innamorato anche, del suo mestiere; che, del resto, la viva espressione del Dell'Acqua di «pittore di pratica» con la quale lo associa al Duchino (Paolo Camillo Landriani), non vuole significare altro. Consideriamolo inoltre in sé, dimenticando, per il momento e nei limiti del possibile, il tempo, l’ambiente, l'atmosfera.
Non si potrà, per esempio, negargli il merito di essere il continuatore più fecondo di quella gloriosa tradizione dell'affresco che dal Foppa al Bergognone, da Luini a Gaudenzio, dal Lanino al Lomazzo, ai Campi, al Peterzano, costituisce una delle caratteristiche dell’arte lombarda. Da Milano ai Sacri Monti delle Prealpi, dalla piana lombarda alle tre pievi del Lario, dal 1608 al giorno della morte, per un quarantennio egli anima delle sue composizioni vive, facili e ridenti, chiese, santuari, cappelle e fors'anche palazzi e case, se una metodica ricerca permetterà l'arricchimento del già notevole catalogo.
Facili, popolari anche, ma non tanto, o non affatto, superficiali, come si vorrebbe, se vi soffermate su questo breve ciclo. La freschezza del colorito, l'armonia delle tinte, il sapiente accostamento dei colori (caldo-freddo, luce-ombra) ci colpiscono per primi. In confronto degli affreschi cinquecenteschi ai quali il nostro occhio è più congeniale, questi colori ci appaiono crudi. Ma il difetto è in noi, nel nostro modo tradizionale di vedere, non nel pittore. Gli azzurri, i gialli, i rossi, i verdi, i marroni, gli stessi bianchi e i rosa, i malva, i viola, i perlacei, i grigi, gli acqua-marina sono per lo più usati schietti, non mescolati, non attenuati e mischiati, ma così come le terre li danno. Non basta il mestiere per tanta sicurezza, occorre il sentire. Occorre una magari modesta ma viva e presente liricità cromatica. E la sommessa musica e il forte concertato di molti accostamenti saltano agli occhi in ogni composizione.
Sicurezza di segno e sicurezza di tocco si accompagnano a questa sensibilità cromatica. Per la perspicuità del primo, nei contorni, negli scorci, nella variata delimitazione prospettica dei piani, non vi è che isolare una qualsiasi delle figure di primo piano, o considerare i ritmi e gli stacchi che reggono ogni episodio. Quanto al tocco, in questi affreschi dove passiamo dal colore campito-pieno in vaste zone cromatiche al colpo di pennello o alla goccia di tinta per una luce, un'ombra, un occhio, un ricciolo, ove passiamo dal fare più largo e sicuro alla tecnica più compendiaria, non vi è che da scegliere.

1 S.  Antonio da Padova, coetaneo di S.  Francesco e il più popolare dopo di lui dei santi francescani, nacque, Fernando di nome, a Lisbona nel 1195, studiò a Coimbra e prese il nuovo prenome nel 1220 entrando nell'Ordine. Fu al Marocco, naufragò in Sicilia, si diresse ad Assisi, insegnò a Bologna, partecipò al capitolo generale dell'ordine nel 1227. Come convertitore di eretici percorse predicando il mezzodì della Francia, la Dalmazia e tutta l'alta Italia. Morto a Padova nel 1231, fu canonizzato 11 mesi dopo. La sua agiografia è ricchissima di episodi miracolosi, leggendari in parte, ma la sua iconografia non prese slancio che nel secolo XV dopo le prediche dì S. Bonaventura da Siena che avviarono la sua immensa popolarità.
A Groppello sono tralasciati   episodi popolarissimi  come  quelli della mula che si inginocchia all'ostia,  del neonato che designa suo padre, del piede troncato e dell'apparizione della Vergine. Ma notissimo è il miracolo del cuore dell'avaro, il primo del nostro ciclo. Dal detto evangelico: «Dove è il tuo cuore, ivi è il tuo tesoro» il santo, predicando a Firenze alle esequie di un avaro, fa trovare il cuore del defunto in uno scrigno. Altrettanto nota è la predica ai pesci, avvenuta a Rimini nel 1222 per punire con l'esempio una folla distratta. Meno comune invece, anche se ispirò un quadro di Bonifacio, la predica che il santo avrebbe fatto dall'alto o ai piedi di un noce a Udine o a Camposampiero, nella tenuta del conte Tiso suo ospite, allorché, mentre tutt'attorno diluviava, il santo e la folla rimasero all'asciutto. In casa dello stesso conte Tiso, nella camera, a disposizione del santo, sarebbero avvenute le ripetute apparizioni di Gesù Bambino, soggetto sia dell'affresco sul nostro altare che di innumerevoli tele, tanto che col giglio, e più raramente con l'aureola infiammata, il sacro infante divenne uno degli. attributi distintivi del santo. Sulla porta della sagrestia è l'apparizione del santo appena morto (qui appunto con l'aureola infuocata) all'abate Tommaso Gallo già suo maestro, che guarisce da un male alla gola. Ne accorrono appunto per il sesto affresco: i miracoli ai funerali o al sepolcro, mentre nell'ultimo (un miracolo di bilocazione) S. Antonio, che si Trova a Padova, compare a Lisbona in difesa del proprio padre accusato dell’assassinio di un fanciullo trovato sepolto nel suo giardino. Esumato il cadavere, questo riprende vita e indica il reo. Oltre che patrono di Padova, S, Antonio è il santo nazionale del Portogallo.
Per la vita e l’agiografia vedi la diligente opera di VITTORINO FACCHINETTI O. F. M.: Antonio da Padova, Milano 1925. Più recente: L. REAU: Iconographie del l'art Chretien, Tomo III, Vol. IV ad vocem, Parigi 1958, ambedue con esauriente bibliografia.
2 Figli di un Carlo, fiammingo che si accasò a Milano ed ebbe numerosa prole (Orlandi), i tre. pittori Della Rovere, chiamati tardamente anche Rossetti, forse per confusione tra Robor e Rubeus, sono Giovan Battista (circa 1561-1623), il maggiore, attivo soprattutto a Milano ma anche a Monza, Cantù, Chiaravalle, Sabbioncello, Locamo, ecc., e spesso in stretta collaborazione col più giovane e più. famoso Giovan Mauro (circa 1570 -1640), operoso tra l'altro a Como e nell'alto lago, a Locarno, Brescia, Pavia, Novara, Pallanza e nei Sacri Monti di Orta, Varallo e Varese; e infine Marco del tutto evanescente perché semplicemente menzionato, senza altro riferimento, dal solo Lanzi. Ma nulla sul loro stato di famiglia, relazioni, contratti. Talché la loro importanza deduciamo solo dalla fama e dal numero appunto delle commissioni e dei committenti. Essenziali per questo i vasti elenchi di opere e la diligente bibliografia compilati da PAOLO ARRIGONI sul Thieme-Becker (XXIX, 1935, ad vocem), anch'egli costretto a dare soltanto le non sicurissime date di. nascita e di morte. Il vecchio Nagler ricorda l'attività incisoria dei fratelli. Le grandi enciclopedie si rifanno, uguali e pedisseque, all'Orlandi, al Lanzi e al spesso infido Malvezzi. Gli archivi, forse, potranno dirci qualcosa. Ad esempio, una mappa della chiesa e casa parrocchiale di San Pietro all'Orto in Milano (Archivio Arcivescovile Spirituale, Sez. X: S. Carlo, Vol. III), riprodotto in Storia di Milano, X, pag. 386, ci rivela che le case dei Fiamminghini erano nella contrada della «Sozza Innamorata» all'angolo appunto di San Pietro all'Orto.
3 G. A. DELL'ACQUA, che già aveva studiato l'epoca nel giovanile ma acuto. Per il Cerano (L'Arte, 1943), è sostanzialmente il primo, preceduto solo da un brevissimo excursus del NICODEMI (Pittori lombardi del Seicento, Roma 1922), che affronti sistematicamente il periodo nel volume X della Storia di Milano (La pittura a Milano dalla metà del Cinquecento al 1630). Equilibrato e chiaro saggio allo stato attuale degli studi, le cui forzate riserve vanno imputate solo alla carenza di ricerche precedenti. Si rimanda alla sua bibliografia e a quella di GIOVANNI TESTORI nel Catalogo della Mostra del Manierismo Piemontese e Lombardo (Torino, 1955), che analizza il periodo da un particolare punto di vista. La citazione del Barockmalerei in den Rom Landern del PEVSNEE (H.d.K. Postdam 1928) e degli intramontabili Quesiti caravaggeschi del LONGHI in Pinacotheca, 1928, è però d'obbligo. Posteriore al Dell'Acqua il volume di WART ARSLAN sulle pitture del Duomo di Milano (Milano. 1960), magistrale nell'ambito del compito assunto e ricco, come si è visto di illuminanti excursus.
L'oratorio di S. Antonio
di Groppello d'Adda
Renato Siesa
www.vivicassano.it

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