Non
sappiamo se Groppello (dal latino Crepellum) sia mai stato, giuridicamente,
feudo degli arcivescovi milanesi, ma certo sino dall’XI secolo i possessi della
mensa arcivescovile in quella borgata, ora aggregata e praticamente fusa col
comune di Cassano d’Adda, furono assai vasti, tanto da comprendere a un certo
momento pressoché l'intero comprensorio territoriale.
La villa Arcivescovile di Groppello d'Adda nel disegno acquarellato di Giuseppe Levati (ca 1810) conservato nella civica raccolta al Castello Sforzesco di Milano
Anche il nucleo della villa, ove risiedeva in permanenza il procuratore dell'arcivescovo, esisteva già nel 1160, allorché i cremonesi rovinarono il ponte sull'Adda. Questo originario palazzo o casa, che varrà la pena di esplorare per eventuali resti di affreschi, con opportuni arrangiamenti di cui ci sfugge ogni notizia, servì probabilmente ad antiquo da saltuaria residenza estiva ai presuli milanesi. Ma solo S. Carlo, che già a sue spese aveva eretto la chiesa e la bella casa parrocchiale tuttora esistenti, fa progettare e inizia l'ampliamento o il rifacimento dell'edificio, perché i suoi successori abbiano una vera villa vicina alla loro sede. Federico Borromeo portò a termine la costruzione e il cardinal Monti gli abbellimenti nel 1650 circa. La balaustra-belvedere sull'Adda e l'oratorio di cui ci stiamo occupando recano infatti i suoi stemmi, e anche lo scalone esterno sembra della sua epoca. Il cardinal Visconti migliorò gli appartamenti, il cardinale Caprara fece rifabbricare simmetricamente sul prospetto e sui fianchi del parco le case dei diretti coloni e abbellì il paese; il Gainsbruck costruì entro il palazzo una ricca cappella e aprì vasti giardini sul colle e sulle pendici digradanti verso l'Adda. In questa complessiva magnificenza appare la villa nel disegno acquarellato di Giuseppe Levati (ca. 1810) conservato nella civica raccolta Bertarelli al Castello Sforzesco di Milano. L'altissima ruota di legno che si vede sul fianco destro del ponte sulla Martesana, tuttora esistente, serviva a sollevare l'acqua necessaria alla borgata. L'ultimo presule che soggiornò regolarmente nella villa fu il patriottico conte Luigi Nazzari di Calabiana. Il cardinal Ferrari si recò a Groppello solo per brevissimi soggiorni; il cardinal Tosi concesse la villa all'Opera Cardinal Ferrari, villa acquistata poi dall'Opera Pia Tonoli per l'infanzia abbandonata.
La magnificenza della villa, che sembra esternamente in discreto stato di conservazione, è scomparsa, l'interno adattato a collegio, le dipendenze ridotte a uno stretto parterre. Alte mura ne precludono la vista, e verso l'Adda una selvaggia selva di robinie toglie barbaramente ogni vista e finanche il sentore dell'acqua. Solo sul davanti qualche nobile e maestoso albero supera con la sua chioma gli sbarramenti attestando la perduta grandezza. L'oratorio di S. Antonio isolato tra i campi a oltre trecento metri sulla destra, è affidato al parroco, l’attuale ne ha appassionata cura.
Tutto ciò abbiamo desunto dal Bombognini (Antiquario della Diocesi di Milano, II, Milano 1828), dall'Amati (Dizionario corografico dell'Italia, IV), dal Cantù (Grande Illustrazione del
L'archivio arcivescovile possiede trentotto grosse cartelle intestate a Groppello, ma, di queste, otto (dalla 29 alla 36) sono momentaneamente irreperibili nel poco spazio in cui sono accumulate confusamente le masse degli atti dopo lo sgombero affrettato e il rientro alla fine dell'ultima guerra; le altre parlano di vendile, acquisti, permute, livelli, servitù, affittanze dei fondi (e anche liti, cause, transazioni), riparazioni a case e anche al palazzo (ingegner Ferrario 18 maggio 1713, cartella 6), ma nulla che valga ad illuminarci sugli architetti e sulla vita artistica del complesso. Solo la cartella 19 contiene un grande disegno di Groppello e dintorni del 1603, ove la cappella naturalmente non figura, una diligente mappa di altro ingegner Ferrario del 1780 e una terza a colori di tutti i possessi, oratorio compreso, del 1750. Del 1° agosto 1607 è una perizia tecnica di G. B. Mangoni (non Fabio) su una parte muraria del palazzo in allora costruita da Pietro Guida maestro e dai suoi muratori (cartella 21). Ma non è detto che il Mangoni, o il Barca pure nominato, sia il progettista del palazzo. Appena più utile un documento del 1656 (cartella 21) in cui certo G. B. Salvadore assume di fare la balaustra del giardino del palazzo verso l'Adda secondo il disegno dell’ingegner Maraviglia. Dell'oratorio di S. Antonio, per il quale avevamo intraprese le ricerche, nessuna traccia.
Paragonare questo breve ciclo antoniano con affreschi a soggetto sacro del Rinascimento lombardo sarebbe evidentemente un assurdo. I Luini di Saronno, ad esempio, sono pervasi, sia pure in libere arie, di una classicità, di un ritmo aulico, di una sinfoniale architettura di cui sarebbe inutile cercare l'eco qui o altrove, nelle opere dei Fiamminghini o dei loro contemporanei. E non perché anch'essi non fossero a loro modo lindi e chiari, e rivolti alla illuminazione e alla edificazione della fede dei semplici, tra campi e genti che molto non differiscono da quelli di Saronno, ma perché il modo di vita, l'articolarsi della società, il manifestarsi delle credenze, il formularsi del pensiero e insomma, l'ambiente sociale, economico, etico, religioso sono profondamente diversi e separati tra loro da un abisso tale che nessuna arte poteva superarlo o prescinderne.
Solo la vena popolareggiante di Gaudenzio Ferrari, là ove si abbandona al suo estro ghiribizzoso e alla sua vulcanica inventiva, può, come già abbiamo detto, essere una premessa, vaga quanto, più lontana, agli spiriti che animano questa prima arte seicentesca.
Non riparlo qui di tipi o figure poste a fare accento o stacco, come gli elegantoni d'ambo i sessi incontrati poco fa, o della scioltezza di pose leggermente scattose, e di certi affini accostamenti di colore, ma proprio del sapore nuovo, dell'atmosfera più schietta e più vera che unisce gli astanti, e i protagonisti delle sacre rappresentazioni dell’uno a quelli dell’altro. I pastori, i mercanti, i viandanti, i contadini del Luini sono semidei vestiti da pastori e mercanti e pellegrini, quelli di Gaudenzio e del Fiamminghino sono reali. La scena della predica sotto il noce, coi due gruppi degli ascoltatori ai lati, è come un Gaudenzio, il Gaudenzio di Varallo, semplificato. Già, semplificato. Perché qui cominciano le differenze. La. frattura che divide l’atmosfera illustrativa tra Luini e Gaudenzio si ripete, accentuata, tra la generazione che va da Gaudenzio sino ai Campi e quella che si apre col Fiamminghino e la sua cerchia.
Togliendo l'apparizione di S. Antonio a Tommaso Gallo per la natura stessa del fatto rappresentato, si rifletta di quante evasioni, di quante libertà, di quante scene di genere, di quanti parerga - come diceva S. Carlo - sarebbero stati oggetto i rimanenti episodi nelle libere e fantastiche mani non solo di Gaudenzio, ma degli immediati successori. Tra giochi di luci e di colori, tra spericolate aperture prospettiche, tutte le fantasie sarebbero state permesse tra folle, figure, gesti, costumi, espressioni le più diverse.
Qui invece i singoli, episodi sono come tante pagine di un vecchio catechismo. Vi predomina la più limpida fedeltà ai fatti. Le storie vi sono partecipate con consapevole lindura con umiltà, come leggenda aurea per poveri di spirito, come pane quotidiano, la realtà di ogni giorno, la verità delle cose, la semplicità dei sentimenti.
La morfologia è la sintassi, che gli artisti del contado lombardo avevano cercato lungo tutto il secolo XVI nelle cappelle, negli oratori, nei sacri monti, per le storie sacre necessarie alla devozione popolare, espressioni della fantasia dei semplici, sono qui giunte ai loto ultimi traguardi. Tra convenienza di vesti e proprietà di atteggiamenti, con l'abolizione via via più radicale di ogni integrazione fantastica, le storie sacre le storie di S. Antonio, sembrano farsi nude e spoglie. Ma non certo, vuote. La vita permane, e da queste storie sembra a tratti uscire un odore arcaico e casalingo di biancheria pulita. Nei ritmi, nei toni, nell'atmosfera, nel comporre semplice e dimesso vi è una ricerca di lindura morale, vi è una serietà e convinzione e una tale dedizione ai sentimenti e ai moti più spontanei dell'animo, e un tal rispetto per la agiografia e per i personaggi effigiati, che tutti gli episodi si vestono di una riverenza e di uno stacco che nascono spontanei, di una dignità quasi ufficiale e di un decoro degno del rito. Queste storie, insomma, depurate di ogni elemento di evadente decorazione, ridotte in soldoni, spiegate con le parole più semplici del dialetto, conservano la dignità necessaria e il dialetto acquista il suono della lingua. Pittura per sane chiare credenze senza metafisici perché, per anime non mistiche ma semplicemente e sinceramente devote.
Ma un'altra caratteristica illumina di significati - ed è un esempio, non certo un'eccezione - il breve ciclo di Groppello. Ed è la rievocazione di queste storie del XIII secolo in chiave «totalmente» contemporanea. Architettura di ambienti e mobili, arredi e costumi, tutta un'intiera atmosfera del secondo quarto del Seicento è presente, dalla tunica del santo alle vesti, dell’abate, del giudice, dello scrivano, dei birri, dei notabili, del popolino, dal severo abito dell'avaro morto ai vistosi e sfarzosi costumi di nobili e dame alla moda di città e di provincia. E il ciborio e il pulpito, lo scrigno e la barella, il seggiolone e il tavolo, il baldacchino del letto e persino le picche, le spade e l'archibugio, disinvoltamente e pianamente presenti, con qualcosa di nativo e di ingenuo nel più integrale degli anacronismi. È, nel breve ciclo di Groppello, una parata, non fredda ma immersa nella più confacente atmosfera, una parata che si direbbe necessaria e naturale del Seicento lombardo, dei suoi usi e costumi e classi sociali e vita di tutti i giorni. Non bastava l'abbandono di ogni capriccio, di ogni evasione, di ogni parerga aulico o letterato, non bastavano la castigata semplificazione dei fatti narrati, la creazione di un'atmosfera reale e di un ambiente adatto agli eventi - come sarebbe una modesta casa e una modesta veste pei fatti della Santa Famiglia - ma occorreva per la maggior comprensione, per la maggior devozione e anche per il più spontaneo piacere del popolo minuto, la vita attuale, il mito portato nel tempo presente. Contraddizioni che qui non sono superate ma semplicemente ignorate. E tanto bene, in un'atmosfera così fusa e adatta, che questi affreschi ci richiamano in modo vago e pure irresistibile le ingenue storie di santi che a Solaro, Lentate, Albizzate, anonimi lombardi dell'ultimo Trecento avevano dipinto sulle pareti delle piccole chiese e degli oratori del contado. Si riprende così nel suo vero spirito, e all'inizio di quel Seicento che darà la fisionomia al barocco, la evangelica tradizione della Bibbia dei poveri, e certe semplificazioni ritmiche e distributive, certi arcaismi disegnativi e cromatici - contrasti, stacchi evidenti di segno e di colore e di piani indubbiamente voluti - paiono non a caso echeggiare le fresche, e diverse, ingenuità della prima pittura gotica.
È quest'oratorio, indubbiamente, un significativo documento dell'epoca. E l'epoca non era più quella dei Visconti e degli Sforza, dopo le stragi delle lunghe guerre, i vuoti delle pestilenze, la desolazione delle campagne, la caduta dei traffici e delle industrie, ma quella dei governatori spagnoli e dei Borromei. All'ascesa del primo, S. Carlo (1565), la diocesi era preda al marasma amministrativo e agli abusi, premuta ai confini dalla propaganda dei riformati, pullulante di eresie evangeliche, luterane, calviniste, zuingliane. Riordinare pievi, parrocchie, conventi, confraternite, ordini religiosi, richiamare il clero alla disciplina materiale e morale, risanare l'amministrazione, risvegliare gli animi, opporre alle eresie l'opera dei Barnabiti, dei Gesuiti, degli Oblati, da lui creati in uno con le confraternite della dottrina cristiana, fu l'opera minuta e immensa di S. Carlo. Che contemporaneamente affrontò l'edilizia sacra e l’arredamento delle chiese, mosso non da criteri artistici ma da necessità pastorali. Non è qui il luogo di rievocarne l'opera alternativamente eccellente o deleteria. Ma di fronte ai protestanti che avevano spogliato le chiese di ogni oggetto ritenuto feticistico e combattuto le immagini sacre, vi fu la preoccupazione di togliere tutto ciò che poteva dar luogo a fondate accuse e di immettere quanto potesse esaltare la concezione cattolica del culto e le glorie delle sue milizie. Sepolcri sospesi, cimeli, altari posticci, false reliquie, statue e pitture non consoni, furono perseguitati ed in parte distrutti, e fissati i canoni delle nuove immagini per le quali si voleva, soprattutto un'aderenza il più possibile, precisa alla verità storica del fatto evocato, e una sobrietà che si opponesse alle inutili e arbitrarie aggiunte, anche quando non fossero di per sé riprovevoli. Questo forse spiega come a Groppello certi miracoli, popolari ma troppo comuni nella letteratura agiografica, e quindi dubbi come la mula che si inginocchia all'ostia consacrata, il neonato che designa suo padre, il miracolo della gamba recisa - e ci sovvengono l'asina di Balaam, gli animali del Presepe, i santi Cosma e Damiano e Pietro Martire - non siano stati evocati. È vero, d'altra parte, che la predica ai pesci pare la replica a quella degli uccelli, e che il cuore dell'avaro è un paragone che si incontra in una pagina, sia pure apocrifa, di S. Bonaventura.
Comunque, su questa via pericolosa per l'arte, in quanto combatteva l'estro degli artisti, proseguì sino in fondo il cardinal Federico, i cui fini, del resto, erano già stati preconizzati dai teorici antimanieristi. Dopo le incertezze dell'Armenini e le contraddizioni del Lomazzo, il secondo dialogo del Gilio (Due dialoghi di monsignor Giovanni Andrea Gilio, Camerino 1564) e nell'ambiente lombardo «Il Figino ovvero del fine della pittura» del padre Gregorio Comanini (Mantova 1591), conclusi dal «De Pictura Sacra» dello stesso cardinale, sono definitivi in materia.
È appena necessario ricordare come per tali teorie l'imitazione (creazione) si divida in fantastica, quando l'artista crea un'invenzione «non più vista o disegnata da altri», e icastica, quando l'artista si conforma alla natura e al fatto da rappresentare; e come il pittore di fatti sacri non possa allontanarsi dalla imitazione icastica in quanto le storie sacre hanno una precisa concretezza storica di avvenimenti e di ambiente, per la quale anzi sarà utile l'assistenza di un teologo o di un agiografo. Di qui al sostenere che mescolare sacro e profano, anche quando non è licenzioso, è un errore, e un errore che può essere peccaminoso l'allontanarsi dalla fedeltà mimetica; che il limitare il numero delle figure e degli oggetti rappresentati, onde concentrare l'attenzione del riguardante, è utile: che anzi la semplificazione e la eliminazione degli elementi fantastici aumentano il piacere della pittura «perché più chiara e comprensibile è una cosa e più piace», non vi era che un passo. Passo che il Comanino e il Borromeo congiuntamente compiono.
Per la morte della Pittura? Non si direbbe spigolando le acute osservazioni dell'ampia cultura figurativa del Comanino o ricordando la vasta opera di collezionista e di promotore del cardinal Federico e i commenti che sulle opere d'arte diede nel suo «Museum» (1625). Non si direbbe rileggendo le norme quanto mai larghe e comprensive dettate dalla Controriforma al concilio di Trento.
Siamo qui, in Lombardia, di fronte a un movimento stimolato certo da superiori direttive, ma in parte anche spontaneo, un movimento che si rifà a un vecchio gusto preesistente, già insito nella severa tradizione lombarda, un gusto che si riappalesa, che riprende quota, che si attua nell'ambiente favorevole, anche, anzi, soprattutto, per interiori convinzioni comuni dell'artista e del sacerdote. Nella serietà morale di questo momento grave, nel crollo degli ideali umanistici, nella crisi economica, sociale, etica, religiosa si riaffaccia in nuova forma, ma identico nel substrato morale, il lontano naturalismo paziente ed istintivo dei lombardi, umile di fronte a Dio e alla natura, a indagar la storia, ad accostarsi alla poesia delle cose, a ricostruire la sincerità dei pensieri e dei sentimenti, con consapevolezza di stile. L'arte lombarda non ha mai messo l'uomo al centro dell'universo, modello supremo se non unico delle sue creazioni. A questa cristallizzazione normativa, a questa rinuncia all' idealizzazione eroica della scena sacra, a questo impulso a immettere i fatti della religione nella intimità della vita giornaliera a cui l'arte lombarda non è certo nuova, specie nelle vite dei santi, a questa concezione storicistica e popolare a un tempo certo è presente anche l'influsso e l'esempio nordico e protestante, ma essa risponde a una tradizione e ad un sentire locali. Specie nel contado, anche sé il contado può cominciare a Chiaravalle o a Garignano.
Perché vi è un insanabile dualismo, nei modi e soprattutto negli spiriti, tra questa pittura e quella della capitale. Né importa se talvolta l'artista sia il medesimo.
A Milano, infatti, escludendo le tele della vita e dei miracoli di S. Carlo, destinate ad essere periodicamente mostrate al popolo come storie edificanti, e che perciò rientrano in forma più aulica nella pittura di cui ci stiamo occupando, il gusto e la moda indulgono, proprio all'inizio del secolo nuovo, alle affettazioni sentimentali e morbide del tardo manierismo. È la pittura dal linguaggio fantastico, bruciato, ossessivo e spesso di un'immaginazione ambigua e morbida, come dicevamo prima per non dire morbosa, di cui si occupa il Testori nella notevole Mostra del 1955. Il linguaggio di certe allegorie e bozzetti e piccole storie del Cerano, del martirio di S. Agata, del S. Carlo in gloria, del Cristo nell'orto del Morazzone, il linguaggio che culminerà con le Lucrezie, le Erodiadi, le Agnesi e le Maddalene di Francesco Del Cairo, che per certo sono tutte all'inferno nonostante, anzi in grazia della magnifica pittura. Ma quelle Madonne e quelle sante che paiono rose sfatte dal languore, tra un acuto profumo di peccati non confessabili, quei supplizi estenuati e sadici tutti percorsi da fremiti che non sono né di strazio fisico né di accesi, non erano certo fatti per la piana devozione e i limpidi sentimenti del contado. Eccezioni il Tanzio e Daniele Crespi, la cui sanità è sempre al di sopra di certe tentazioni, il che non avviene per Giulio Cesare Procaccini che, se il lettore non avesse perso il filo, sarebbe stato il maestro del nostro.
A prescindere dai dubbi nati per l'età degli interessati, che esclude il mero insegnamento del mestiere, non so proprio da che cosa si appalesi questo rapporto di discepolato o quanto meno di influenza attestato dall'Orlandi e ripetuto, forse meccanicamente, dal Lanzi, così come non comprendo che si possa immettere nelle estreme propaggini del tardo manierismo il Fiamminghino con tutti i frescanti di quella cerchia di cui la sua opera è l'esempio più diffuso e probante.
Per quanto, infatti, riguarda il Procaccini, squisito creatore di brevi composizioni, le sue belle donne e Madonne, robuste benché svenevoli nelle procaci carni lattee, le sue martiri che sì estasiano in supplizi gioiosi, le sue ferite preziose di sangue arrubinato hanno certo molto suggerito alla ossessiva poesia di Francesco Del Cairo, nulla alla limpidità serena del Fiamminghino.
Se il Del Cairo è l'ultimo e vero rampollo di quel manierismo lombardo-piemontese che delineò una pagina inconfondibile nel complesso manierismo italiano, il Fiamminghino, una generazione prima di lui, è l'esponente di un breve modo che col manierismo non ha niente a che fare.
Il manierismo come idea, come opposizione alla molteplicità della natura, il manierismo come superamento del canone classico e della natura stessa attraverso le immagini interiori dell'artista - interiorità che spezza l'unità rinascimentale e classica tra pulcritudo e similitudo, - il manierismo come stilizzazione elegante e artificiosa attraverso cui, in un certo senso, rivivono simboli, emblemi, ritmi compositivi e tendenze spirituali gotiche, il manierismo come sottile gioco intellettuale o come valore di espressioni e emozioni diverse dalle rinascimentali, il manierismo insomma comunque lo si voglia considerare e definire, ma in ogni modo esasperato riflesso artistico di profondi mutamenti sociali, di profondi rivolgimenti religiosi e morali, nulla ha a che fare, con questa pittura ormai giunta in porto anche moralmente e spiritualmente. Mentre d'altro canto l'enfasi barocca, la sua eloquenza e il suo tormento non l'hanno ancora toccata.
Come chiameremo allora quest'arte dimessa eppur sincera, dominata dalla convinzione che quanto più si allontana dalle cose vere, tanto più l'artista si allontana dalla vera arte del dipingere? Questa pittura in cui la fedeltà storica più ovvia viene investita di un'alta dignità anche estetica e in cui, agli antipodi di ogni gusto manierista o barocco, idea e natura sembrano coincidere nell'espressione piana delle cose e dei sentimenti, dei fatti e di una fidente sommissione ai credi della fede. Che non ti suggerisce esaltanti ma pericolose estasi, ma, specchio quotidiano, solo gli atti di una quotidiana semplice devozione.
Come chiameremo questo gusto religioso determinato localmente dall'influsso di eminenti e fervide personalità, preparato da un'acuta dottrina, spinto nelle vie pratiche dalla propaganda, e che pure sentiamo spontaneo e aderente, amato e sinceramente espresso dal popolo e per lui risalente, nelle sue intime fibre, a una tradizione locale tanto antica quanto inconfondibile?
Il Seicento è il secolo dei pittori della realtà. Tuttavia, non sappiamo. Chiamarlo naturalismo religioso, realismo tridentino, stile della Controriforma, non ha importanza, si tratti o non si tratti di stile, esso è prima di tutto lo specchio di uno stato d'animo comune e, come tale, la manifestazione di una religione che vuole coscientemente andare verso le anime semplici. L'essenziale non è di applicare uno schema, ma di sentire il perché del linguaggio delle forme in un dato momento e di considerarle non solo in sé e come espressione isolata di uno spirito creatore, ma anche come specchio, spesso inconscio, di un ambiente1.
1 Il geniale saggio di MINA GREGORI: I ricordi .figurativi di Alessandro Manzoni, in «Paragone» numero 9, settembre 1950, alle cui conclusioni si attengono sostanzialmente sia il Dell'Acqua che l'Arslan, e gli acuti studi di EUGENIO BATTISTI riuniti e fusi nel volume Rinascimento e Barocco (Torino 1960), a cui si rimanda anche per la bibliografia soprattutto dei trattati e delle fonti, sono la base dalla quale han preso avvio e forma queste osservazioni sul concreto esempio di Gropello come, del resto, il lettore più provveduto avrà già notato. Pittura e Controriforma (Torino 1937) di FEDERICO ZERI, più brillante e di assai meno filologica impostazione, e gli studi precedenti della BECHERUCCL, del BRIGANTI, della NICCO FASOLA, ecc., hanno contribuito, pro o contro, alle tesi qui sostenute.
Tratto da: Acropoli - rivista d'arte - 1960-61
"L'Oratorio di Groppello d'Adda e il Fiamminghino"
Angela
Ottino Della Chiesa ha scritto sulla rivista d'arte Acropoli 1960/61
"L'Oratorio di Groppello d'Adda e il Fiamminghino":